NewTuscia – VITERBO – Perdere tutto ma non la speranza: è la lezione più grande che si possa imparare da Edith Bruck, scrittrice ebrea, un anno in campo di concentramento tra il ’44 e il ’45. Il 26 maggio ha incontrato in videoconferenza i ragazzi della terza F della scuola Fantappiè di Viterbo: l’associazione Juppiter, che li sta preparando agli esami di terza media, porta avanti con loro da un anno una serie di iniziative sulla memoria, dentro il progetto “L’avventura ha le ali grandi”, sposato dal ministero dell’Istruzione.

“La memoria è vita: passato, ma anche presente e futuro – ha detto Bruck ai ragazzi -; per chi è stato deportato il tempo non passa e dimenticare è impossibile”. Per alcuni non era la prima volta a colloquio con lei: il 18 gennaio, una delegazione di quattro studenti, con la preside Valeria Monacelli, era andata a trovarla nella sua casa a Roma. Sempre i giovani della Fantappiè, in un evento organizzato dalla cooperativa Gli Aquiloni, che collabora con Juppiter, nella giornata della memoria hanno fatto partire un corteo silenzioso dalla casa della famiglia Anticoli, in via della Verità, a Viterbo. Fuori da quel portone luccicano tre pietre d’inciampo, in ricordo dei tre deportati mai più tornati a casa. Quel giorno, gli studenti avevano preso l’impegno di non dimenticare la Shoah, un impegno che stanno rispettando, nonostante la pandemia renda più difficile qualunque iniziativa.

Edith è già stata a Viterbo: ha promesso ai ragazzi che tornerà presto per incontrarli di persona. Per ora si sono dovuti “accontentare” di un intenso dialogo, con l’aiuto del Centro studi Aldo Moro, che ha permesso loro di mettersi in contatto con lei. Alla videochat hanno partecipato anche la preside Monacelli, gli educatori di Juppiter e il presidente Salvatore Regoli. Una call di un’ora che è sembrata durare un minuto, ascoltando Edith. La parola “è come un bambino che nasce – ha detto -: mi siedo e viene da sola, una riga dietro l’altra”. Le è più facile esprimersi in italiano piuttosto che in ungherese, la lingua della sua terra che le ha insegnato presto la follia della discriminazione: “Nel mio villaggio c’erano solo 12 famiglie ebraiche – ha ricordato -. Una mia amica, un giorno, mi disse che non vedeva l’ora che ci portassero via: non riusciva più a vederci soffrire”.
A 13 anni, ha provato l’orrore di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen e altri lager, eppure racconta che, perfino nella ferocia più cieca, ha incontrato bagliori di umanità. “Non è mai sempre buio, nella vita – ha detto ai ragazzi -, c’è sempre qualche luce. Nel ghetto, per esempio, un giorno, è venuto un contadino che ci ha portato del cibo”. Sempre nella vita c’è “un’ombra di luce”, ricorda lei, perfino in un campo di concentramento: “Una volta, un cuoco a Dachau mi ha chiesto: ‘Come ti chiami?’ Per me, che ero solo un numero, fu come vedere Dio”. La crudeltà che qualcuno ci infligge non ci autorizza a diventare crudeli. Tra i ricordi che condivide con i ragazzi, c’è un frammento della sua liberazione: gli ungheresi, deportati per ultimi, lasciavano i lager per ultimi. “Abbiamo nascosto e portato a casa cinque soldati. Non abbiamo pensato che erano soldati, che avevano ucciso. Li abbiamo lasciati al confine e ci hanno detto: ‘Dio vi benedica’. Non bisognava ricominciare con la vendetta”.

Un racconto in cui non c’è traccia di odio, neanche verso chi ha provato a rubarle la vita. Non è con l’odio che si cambia il mondo in meglio; lei prova a farlo con la sua testimonianza: “Se girando le scuole d’Italia riesco a cambiare 2, 3, 15, 20 persone la mia vita non è stata vana. Non odio i tedeschi: ho imparato ad ascoltare non chi urla di più, ma chi parla più piano. La deportazione mi ha tolto tutto, ma non la speranza”.

Associazione Juppiter