L’espressione poetica squarcia le nebbie dei deserti urbani e interiori.

Un inno alle stagioni della vita con la capacità di rigenerarsi e di sognare.

di Stefano Stefanini

NewTuscia – La poesia  “Risvegli nell’equinozio autunnale” di Maria Silvia RITA, ci dà l’opportunità di rileggere ed interpretare in termini poetici il primo giorno d’autunno.

La poesia “Risvegli nell’equinozio autunnale” rappresenta  un testo originale e riferibile interamente alla sensibilità dell’autrice, con la serie di immagini evocate dall’incedere  dell’autunno, che si originano da impressioni, ricordi, percezioni del tutto personali e scaturiscono con felice creatività dall’idea stessa della nebbia,  dalla contemplazione, in una sorta di magica atmosfera, di paesaggi velati dalla bianca cortina, ammirati con atteggiamento trasognato.

Nell’età giovanile,  riflette Maria Silvia Rita,   “finché le arcane leggi della biologia concedono, a livello istintuale, la forza  e la volontà di rinascere, di rigenerarsi, l’incedere della stagione autunnale  non è motivo di tristezza, di noia, non produce senso di torpore, di  estenuazione esistenziale, bensì accresce piacevolmente la capacità di sognare,  essendo avvertita come”grande gestazione”, come”palingenesi universale”.

Da tale  percezione prendono vita immagini di indubbio valore simbolico, che alludono  all’intimità familiare, alla fertilità (il “melograno là vicino al pozzo”),  all’ideale antico e sempre nuovo di un amore totalmente appagante, vagheggiato  in un’atmosfera fiabesca. Attraverso il mutare delle immagini stesse, che nell’ultima strofa cambiano, trasformandosi decisamente, a riflettere la  consapevolezza dolorosa della precarietà dei sogni, insieme all’impotenza  dell’età matura, viene resa la percezione del trascorrere inesorabile del tempo.

L’autrice, da sempre impegnata nella divulgazione presso i giovani alunni dei valori formativi della letteratura in ogni sua espressione, in particolare quella poetica, ha offerto ai lettori anche un altro testo:  “Gerani nel quartiere medioevale” .

Il discorso lirico si avvia mediante  un’invocazione, un “tu” presente in apertura di verso, che allude ad una  presenza maschile immateriale, viva ormai solo nel ricordo, a cui l’autrice  immagina tuttavia di rivolgersi. L’iterazione del “tu”, dopo quattro versi  appena, ne evidenzia comunque l’importanza e la centralità nell’ambito del  componimento. La lirica prende spunto infatti dalla dolorosa percezione della  mancanza, ormai definitiva, della persona amata, la cui fisicità viene ricercata  in ogni modo, in ogni condizione, nelle varie stagioni dell’anno.  L’impossibilità di un nuovo incontro con l’antico amore e quindi l’elegia del passato che non ritorna si inscrivono in una cornice estremamente suggestiva,  per cui la vicenda, appena accennata, diviene metafora d’una realtà più  profonda. La sofferenza derivante dall’incontro negato, evocata nel”groviglio di  vie del vecchio quartiere”, si carica infatti di molteplici significati.

L’imponenza di strutture medievali, che con la loro mole oscurano in parte la  luce solare, la leggiadria delle bifore, che conferiscono preziosità ai  campanili e alle facciate di antichi palazzi, si illuminano della freschezza del  sentimento amoroso, in grado di rigenerarsi, come i gerani a maggio, coi loro  colori splendenti, di accrescersi fino a determinare la percezione d’una sorta  di eternità, seppure concepita, ovviamente, in una dimensione del tutto umana.

 

Si susseguono i secoli e le stagioni, si rinnovano le generazioni, ma le leggi  dell’amore, che si protende oltre la morte, quale generosa, romantica illusione,  sembrano rimanere immutate. Più longeve delle precarie esistenze umane,  paiono essere le strutture marmoree dell’antico quartiere, a cui  l’autrice si rivolge nella parte conclusiva della lirica, equivocando  volutamente sul significato dell’ “essere vivi” e del “sentirsi vivi”.

Ma è chiaro, comunque, il messaggio: si è vivi finché si è animati dall’amore, finché si crede  nell’amore, che va ad identificarsi, in fondo, con ogni possibile proiezione  futura, con la potenza rigeneratrice dell’esistenza stessa. Si può concepire appieno il calore vivificante del sole primaverile, finché si crede nell’amore,  finché lo si ricerca con fiducia. Una volta che si sia usciti da tale felice  condizione, da tale stato di grazia, può accadere di sentirsi in una dimensione  di “trapassati”, di “fantasmi” e di percepire come tali anche le altrui  presenze.

All’originalità dei contenuti e delle immagini  corrisponde, in ambedue le liriche, una personalissima tecnica espressiva,  apprezzabile nelle soluzioni metriche, linguistiche e stilistiche adottate dall’autrice,  docente di Letteratura Italiana e Latina presso il Liceo Scientifico  Don Delfo Gioacchini  di  Orte.

Ricordiamo che nell’ambito scientifico, come nella cultura popolare, l’equinozio  (dal latino æquinoctium, ovvero «notte uguale» in riferimento alla durata del periodo notturno uguale a quello diurno) è quel momento della rivoluzione terrestre intorno al Sole in cui quest’ultimo si trova allo zenit dell’equatore. L’equinozio  ricorre due volte durante l’anno solare e, in tale momento, il periodo diurno (ovvero quello di esposizione alla luce del Sole) e quello notturno sono uguali. Gli equinozi occorrono a circa sei mesi di distanza l’uno dall’altro, più precisamente a marzo e a settembre de calendario civile; analogamente ai solstizi, essi sono convenzionalmente assunti come momento di avvicendamento delle stagioni astronomiche sulla Terra. Nell’emisfero boreale l’equinozio di marzo segna la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, mentre quello di settembre termina l’estate e introduce l’autunno. Viceversa accade nell’emisfero australe, dove l’autunno entra all’equinozio di marzo e la primavera in quello di settembre.